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Nota del presidente Troncarelli sul Referendum del 17 aprile

Il 17 aprile si voterà il Referendum sulle attività di produzione di idrocarburi a mare, richiesto, per la prima volta nella storia, da alcune Regioni, anziché da una raccolta firme. E già tale passaggio, seppur costituzionalmente corretto, fornisce una prima chiave di lettura del
significato politico della chiamata alle urne.

In Italia i giacimenti di idrocarburi sono patrimonio indisponibile dello Stato e possono essere perciò sfruttati da imprese, che debbono richiedere una concessione governativa per l'esplorazione (permesso di ricerca) e poi una concessione governativa per l'estrazione (concessione di coltivazione). Attualmente ogni concessione dura 30 anni e può essere rinnovata la prima volta per 10 anni, poi per altri 5 anni e di nuovo per altri 5; infine, se il giacimento è ancora produttivo, l’impresa può chiedere di estrarre fino ad esaurimento dello stesso.

Il 17 aprile si dovrà decidere se vietare il rinnovo delle concessioni estrattive di gas e petrolio già attive entro le 12 miglia (circa 22 km) dalla costa; non si tratterà quindi di scegliere se proibire nuove perforazioni, per ricerca e/o estrazione, visto che, per legge, sono già vietate entro le 12 miglia dalla costa, mentre invece continueranno ad essere consentite oltre tale distanza, nonché, ovviamente, sulla terraferma.

Il limite delle 12 miglia venne introdotto nel 2010 dal cosiddetto “Decreto Prestigiacomo”, per la
salvaguardia delle coste; fu emanato subito dopo l’esplosione nel Golfo del Messico della piattaforma petrolifera “Deepwater Horizon”, che sversò in mare 500.000 tonnellate (780 milioni di
litri) di petrolio. Da allora il limite è stato più volte “revisionato”: la prima volta nel 2012, con il
Decreto "Sviluppo Italia” di Monti, con cui è stato esteso dalle sole aree marine protette a tutta la costa italiana, e l’ultima, introdotta dalla Legge di stabilità 2016 (n. 208/2015), che ha sostituito il comma 17, art. 6, del D. Lgs. 152/06, stabilendo il divieto di ricerca e coltivazione di idrocarburi nella fasce marine entro 12 miglia dalla costa, facendo salvi i soli titoli abilitativi già rilasciati.
Oggi la legge consente a chi ha una concessione offshore entro 12 miglia di rinnovarla fino ad esaurimento del giacimento.

Delle 69 concessioni offshore attive oggi in Italia, 30 (26 di gas e 4 di petrolio) sono entro le 12
miglia, 39 oltre. Il referendum riguarda le 30 concessioni “interne”, divise in 7 zone, di cui 5
interessate dal referendum: Alto Adriatico, Medio Adriatico, Sud Sicilia e due nel Mar Ionio.
Se vincesse il “SI” gli impianti di queste 30 concessioni dovrebbero chiudere tra 5 e 20 anni, con
effetto pertanto “spalmato” nel tempo.

In Italia queste 69 concessioni in mare producono gas e olio attraverso circa 130 piattaforme, dalle quali deriva l’80% di tutta la produzione nazionale di gas ed il 9% di tutto il petrolio; tali quantità insieme soddisfano il 10% del fabbisogno interno. Da tale dato emerge come dipendiamo, per il 90% circa dalle importazioni, per soddisfare il nostro fabbisogno energetico. Non si ha alcuna statistica esatta, invece, sulla percentuale di gas e olio che viene estratta entro le 12 miglia, dato utile per stimare quanto si perderebbe in produzione nel caso di vittoria dei “SI”, né esiste alcuna stima su quanto siano abbondanti le riserve che si trovano in tale fascia: se fossero al limite dell’esaurimento il referendum sarebbe di fatto inutile, poiché le concessioni terminerebbero comunque “naturalmente”. Si sa però che entro le 12 miglia vi sono 92 piattaforme, di cui 48 eroganti, e di queste 39 estraggono gas e 9 petrolio.

I fautori del “SI” motivano tale scelta di campo sostenendo essenzialmente l’inutilità di proseguire
le attività di ricerca e produzione, poiché in Italia ci sono ormai pochi idrocarburi e di bassa qualità, esiste comunque un rischio ambientale e quindi presunti danni al turismo.
Vale la pena fare alcune rapide considerazioni su tali affermazioni che non sono supportate da
alcun fondamento scientifico.

Per quanto riguarda la quantità di gas e petrolio giova ricordare che, da circa 10-15 anni, si è
certamente osservata una drastica riduzione delle attività esplorative in Italia; ma tale tendenza si
è avuta più o meno in concomitanza con la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha introdotto l’attribuzione di competenze concorrenti fra Stato e Regioni nelle istruttorie concessorie; ciò ha determinato una sovrapposizione ed un ingiustificato ed inutile appesantimento dei processi e delle competenze, che ha reso l’impianto autorizzatorio sempre più articolato, senza certezze temporali, scoraggiando gli investitori, soprattutto esteri, poco abituati alle lungaggini ed alle incertezze italiane.Quindi l’aspetto relativo alla quantità potrebbe essere facilmente risolto restituendo agli iter certezza nelle competenze e rapidità delle istruttorie.

E nonostante ciò le riserve sono aumentate di circa il 10% per i gas e del 14% per il petrolio, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie ed all’incremento delle conoscenze scientifiche in generale e geologiche in particolare.

Per quanto attiene la qualità, è un concetto molto relativo che bisognerebbe trattare in parallelo con i processi lavorativi attinenti la raffinazione e la separazione delle diverse componenti.

Le potenziali ricadute negative sull’ambiente potrebbero essere connesse ai rischi legati alle tecniche di ricerca (air-gun) e di estrazione, che inciderebbero, a detta dei “SI”, sulla fauna marina elevando il livello di stress, sul possibile rischio subsidenza, sull’effetto“marea nera” in caso di incidente che determinerebbe un forte inquinamento. Si tratta comunque di valutazioni assolutamente prive di rigore scientifico e certezze documentali. E comunque, limitandoci all’aspetto inquinamento, il Mediterraneo già soffre di tale sindrome da trasporto di petrolio, come testimoniato dai recenti dati ISPRA che indicano, negli ultimi 30 anni, sversamenti in mare da navi petroliere, per circa 312.000 tonnellate di greggio, senza considerare gli incidenti minori.

E comunque la struttura dei pozzi petroliferi italiani, la geologia del sottosuolo, le condizioni ingegneristiche degli impianti italiani sono molto diversi e più sicuri di quelli delle piattaforme nel mondo che sono state interessate da incidenti.

Per quanto afferisce, infine, alle ripercussioni sul turismo, il rapporto causa effetto è tutto da dimostrare se è vero, come è vero, che l’Emilia Romagna, regione con il più alto numero di piattaforme, è anche una di quelle con il settore turistico più in salute, così come la Basilicata, fortemente interessata da attività legate alla esplorazione ed alla coltivazione di idrocarburi, evidenzia un fortissimo trend in crescita del comparto turistico.

Perciò, anche a detta dei promotori del referendum, le motivazioni suddette non assumono rilevanza assoluta e la scelta è più che altro un atto politico, che dovrebbe servire ad esprimere un dissenso sull’utilizzo di risorse fossili, quali gas e olio, e ad incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili.

Personalmente ritengo molto più convincenti e meno “fantasiose” le motivazioni per il “NO”.

In primis la questione energetica: l’Italia, abbiamo ricordato sopra, estrae dal proprio territorio solo il 10% del proprio fabbisogno energetico. Se terminasse la estrazione entro le 12 miglia, quella quota parte di energia non verrebbe prodotta da pale eoliche o sonde geotermiche o pannelli fotovoltaici installati sul nostro territorio, ma dovremmo progressivamente acquistarla dall’estero, diventando ancora più dipendenti dai paesi fornitori, con immaginabili ed onerose conseguenze sulle nostre bollette elettriche.

Perciò, seppure ritengo sia l'unica strada giusta per il futuro, attualmente quella delle rinnovabili è così poco “agevolata” da politiche incentivanti adeguate, che non possiamo ancora fare a meno delle risorse fossili: nel 2013 la quota di energia elettrica prodotta da rinnovabili è stata del 33,9%, nel 2014 del 37,5%, mentre quella da fonti tradizionali è scesa negli stessi anni dal 53,3% al 48,8%; pertanto il trend, seppur virtuoso e positivo in prospettiva, è ben lungi dall’essere risolutivo della nostra dipendenza da gas e petrolio.

Per quanto attiene l’aspetto ambientale, in caso di chiusura delle concessioni offshore “interne”, arriverebbero in Italia dall’estero, per sopperire al gap produttivo, molte più navi gassiere e petroliere di quante ne approdino attualmente, aumentando enormemente il rischio da inquinamento da idrocarburi per incidenti nel Mediterraneo che già, come ricordato in precedenza, è stato interessato da importanti sversamenti da trasporto.

La ricaduta sociale ed occupazionale derivante dalla chiusura delle piattaforme significherebbe una progressiva perdita di posti di lavoro; ora, se è vero che i primi esuberi si registrerebbero non prima di 5 anni, è altrettanto accertato che essi interesserebbero poi fasce sempre più larghe di lavoratori del settore; basti pensare, ad esempio, che il comparto, nella sola zona di Ravenna, impiega, direttamente e mediante l’indotto, circa 7.000 persone, mentre il distretto abruzzese ne occupa circa 3-4.000.

Infine, per quanto concerne l’aspetto politico, ritengo che il referendum sia lo strumento sbagliato per spingere il Governo ad incentivare la produzione di energia da fonti rinnovabili; inoltre, temo che, come in molte altre occasione (Tav in Val Susa ad esempio o deposito di scorie nucleari a Scansano Jonico), i fautori del referendum e del “SI” siano affetti dalla nota sindrome di Nimby, che in Italia fa continuamente proseliti: Not In My Back Yard, ovvero purché “non nel mio giardino”.

Ed aggiungo, per finire, il forte sospetto che il referendum sia un tentativo di alcune regioni di fare pressioni sul Governo, in un momento in cui, una serie di leggi recentemente approvate e la riforma costituzionale in discussione, stanno sottraendo alle stesse numerose autonomie e competenze, depotenziandole.

Roberto TRONCARELLI
Presidente Ordine dei Geologi del Lazio